EVENTI

Intervista di Susanna Recchia, a cura di Lucia Oliva

 

Lucia Oliva: Susanna Recchia, danzatrice, ricercatrice, insegnante che abbiamo invitato a
Bologna per aprirci un mondo, quello dell’anatomia esperienziale, accompagnato dalla
danza, dalla ricerca sul movimento, dalla ricerca di ampliare le proprie possibilità
espressive, e quindi anche le proprie possibilità di esistenza.
La prima cosa che chiediamo a Susanna è di presentarsi, magari raccontandoci come ha
incontrato questa disciplina nelle sue varie declinazioni, i diversi insegnanti con cui ha
studiato, da quali bacini hai attinto le informazioni che ha condiviso con noi.

 

Susanna Recchia: Ho conosciuto l’anatomia esperienziale nel ’99, attraverso Elisa
Barucchieri, che mi ha introdotta a questo tipo di lavoro e nello stesso periodo, quasi per
caso, ho trovato il libro l’Anatomia Esperienziale di Andrea Olsen buttato in un cesto, in
super-saldo, in una libreria di Avezzano.
Dopo un paio di anni che mi ero trasferita a Londra, ho saputo che Andrea Olsen, la
persona che aveva scritto il libro, con Caryn McHose, sua compagna di ricerca,
sarebbero venute al Laban, l’università in cui stavo studiando, per tenere un workshop di
un giorno. Da allora mi sono appassionata a questo lavoro e al modo in cui loro due in
particolare, queste due artiste, presentavano questo tipo di proposta. Da allora, cioè dal
2004, seguo annualmente il loro lavoro.
Questo incontro con Andrea Olsen e Caryn McHose e la loro ricerca è nato come
opportunità di studio, lentamente si è trasformato in un modo di vivere la danza, ma anche
la quotidianità, la relazione con gli altri; un modo di osservare il mondo, l’ambiente, la
natura e tutto ciò che ci circonda. Faccio quindi riferimento a questa chiave di lettura,
quella dell’anatomia esperienziale, nel proseguire il mio percorso formativo della danza ed
ora anche nel dirigere le prove della compagnia (CanDoCo Dance Company).

Lucia Oliva: Mi sembra quasi una prospettiva; cosa c’è in questo tipo di “lenti” da
applicare alla danza, al movimento, alla ricerca che ti ha da subito interessata e coinvolta
così profondamente?

Susanna Recchia: Come prima cosa ha cambiato il mio punto di riferimento, attraverso
l’anatomia esperienziale sono riuscita a capire che non era necessario affrontare
l’apprendimento del movimento dall’esterno verso l’interno. Cioè potevo non fare
riferimento ad un modello esterno e quindi estetico, altro da me, per poi cercare
successivamente di interiorizzare il movimento. Potevo non avere nulla da raggiungere,
copiare o imitare: con l’anatomia esperienziale ho capito che il punto di partenza, ciò a cui
fare riferimento, ero io stessa. Potevo partire da ciò che sentivo, ciò che provavo a livello
fisico, a livello emotivo e anche a livello immaginativo. Questo per me è diventato anche
un modo di comprendere la creatività: in un certo senso, tutto quello che sono, tutto quello
che immagino, tutto quello che sento, è fonte di ispirazione per creare movimento, ma è
anche fonte di consapevolezza di ciò che faccio a livello di azione, di interazione nella vita
di tutti i giorni.

Lucia Oliva: In questi workshop che tu insegni, proponi comunque un’esperienza di
gruppo. Come può questo mondo interiore, come questo mondo del sentire,
dell’osservazione, dell’ascoltarsi, può diventare incontro con l’altro?
Susanna Recchia: Ho molto interesse nel cercare di capire come questo tipo di lavoro
possa non diventare insulare. Parte della ricerca riguarda la consapevolezza di sé, la
consapevolezza del proprio corpo, del proprio respiro, ma non mi è mai interessato un tipo
di lavoro in cui la conclusione fosse quella.
Prendere coscienza di me stessa mi interessa, ma ciò che mi interessa maggiormente è
come vivere in questo mondo in maniera sostenibile, indendo a livello fisico, ambientale,
ma anche di relazione. Per me, quindi, il lavoro di gruppo è quasi un’occasione per fare
pratica di tutte queste cose, per poter condividere con altri sia il lavoro fisico che un modo
di essere. Questa è la mia proposta: ricercare la possibilità di una comunicazione che
vada oltre gli schemi imposti dalla società, o la pressione che abbiamo rispetto
all’apparire, o al dover essere, o al dover adattarsi a ciò che immaginiamo sia giusto – la
forma giusta, l’espressione giusta, il modo di parlare giusto.

Lucia Oliva: Mi sembra che questa sia una proposta profondamente politica: questo
lavoro nasce tra la specificità ed unicità dell’individuo, quello che è il gruppo e la sua
differenza nel suo essere molteplice. Questo porta con sè il senso di imparare a vivere
insieme agli altri. Secondo te, quindi, la danza cosa può offrirci da questa dimensione di
relazione?

Susanna Recchia: Questo è un aspetto che ho elaborato col tempo e con l’esperienza,
l’ho da sempre avvertito a livello viscerale pensando che determinate cose per me erano
importanti e che volevo farle, condividerle ed insegnarle agli altri. È con il tempo che sto
prendendo consapevolezza dell’importanza di questo lavoro anche come proposta politica,
quindi che va oltre il potenziale creativo. Per me è come un’opportunità, un’occasione
condivisa con un gruppo, di ricercare modalità alternative per comunicare, stare insieme e
per ascoltarsi.
Devo dire che molti degli artisti che ho conosciuto, interessati all’anatomia espereinziale, si
interfacciano anche con discipline che si occupano delle medesime tematiche in altre
modalità, come ad esempio la comunicazione non violenta, oppure la somatic
experiencing (lavoro terapeutico che si occupa del collegamento tra esperienza fisica e
trauma). Quindi, anche se il lavoro che presento non è necessariamente a scopo
terapeutico, sono perfettamente consapevole del potere trasformativo che il movimento
possiede: la trasformazione del singolo, penso possa portare ad una trasformazione del
gruppo che quindi può portare una comunicazione alternativa oltre le quattro mura di una
sala di danza.

Lucia Oliva: un’ultima cosa, anche piccola, che senti di avere urgenza di condividere?
Susanna Recchia: Sì! Ieri al pub ho trovato un sottobicchiere che riporta questa scritta:
Now life: too short for “maybe later”, anche se è abbastanza ridicolo che una frase del
genere, legata alla consapevolezza del momento, alla pratica del presente, arrivi dal
sottobicchiere di un pub, oggi l’ho proposta come perla di saggezza durante il workshop 🙂

Bologna – 5 Gennaio 2019